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Categoria: Giocattoli
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Pubblicato Giovedì, 28 Marzo 2013 13:49
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Scritto da Franz Kafka - chiosato da Gilberto Pierazzuoli
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I giocattoli: Odradek

In foto un odradek sul tavolino di salotto.
LA PREOCCUPAZIONE DEL PADRE DI FAMIGLIA
Gli uni dicono che la parola Odradek derivi dallo slavo e cercano in questo modo di rintracciare la formazione della parola. Altri invece pensano che derivi dal tedesco, e sia soltanto influenzata dallo slavo. L'incertezza di questi due pareri però lascia forse concludere a ragione che nessuno dei due sia giusto, soprattutto che con nessuno dei due si riesca a trovare un significato della parola. Naturalmente nessuno si occuperebbe di simili studi, se non ci fosse davvero un essere che si chiama Odradek. Sulle prime ha l'aspetto d'un rocchetto di spago piatto a forma di stella, e infatti sembra anche che sia rivestito di spago; certo devono essere soltanto pezzi di spago strappati, vecchi, annodati insieme, o anche pezzi di spago di colore e specie diversissimi messi insieme. Non è poi soltanto un rocchetto, ma dal centro della stella sporge un bastoncino di traverso e a questo bastoncino se ne unisce ad angolo retto un altro. Con l'aiuto di questo ultimo bastoncino da una parte e di una delle irradiazioni della stella dall'altra l'insieme può camminare diritto come sopra due gambe. Si sarebbe tentati di credere che questa formazione avesse avuto in passato una qualche forma razionale e che ora sia semplicemente rotta. Ma non sembra sia così; almeno non si trova nessun segno di questo; in nessun punto si vedono aggiunte o rotture che accennerebbero a qualcosa di simile; l'insieme appare, sì, privo di significato, ma nel suo genere chiuso in se. Non è possibile parlame in modo più particolareggiato, perche Odradek è straordinariamente mobile e impossibile ad acchiapparsi. Si trattiene alternativamente nelle soffitte, sulle scale, nei corridoi, al pianterreno. A volte per mesi e mesi non si vede affatto; allora probabilmente si è trasferito in altre case; ma poi torna immancabilmente in casa nostra. A volte, quando si esce dalla porta proprio mentre egli si appoggia alla ringhiera della scala, vien voglia di rivolgergli la parola. Naturalmente non gli si pone nessuna domanda difficile, invece lo si tratta, già la sua minuscola statura ci induce a farlo, come un bambino. «E come ti chiami? » gli si domanda. « Odradek », egli dice. «E dove abiti?» «Senza fissa dimora », dice e ride; però è soltanto una risata come si può fare senza polmoni. Suona press'a poco come un fruscio di foglie cadute. Con questo la conversazione per lo più è terminata. Del resto nemmeno queste risposte si possono sempre ottenere; spesso resta muto a lungo, come la legna cui assomiglia. Invano mi domando che cosa sarà di lui. È sottoposto a morire? Tutto ciò che muore, prima ha avuto una specie di mèta, una specie di attività, e in essa si è consumato; nel caso di Odradek questo non si avvera. È dunque destinato magari a srotolarsi giù per le scale davanti ai piedi dei miei figli e dei loro figli trascinando dello spago dietro di sé? È palese che non nuoce a nessuno; però l'idea che debba ancora sopravvivere anche a me, mi è quasi dolorosa.
Nel filmato Odradek nudo e crudo che fa i primi passi.
Il giocattolo ed il feticcio: il mondo di Odradek.
Rileggo un racconto di Kafka che non ricordavo. La costruzione sintattica è regolare, non ci sono particolare figure retoriche, giochi linguistici, sequenze incalzanti e neppure troppe frasi subordinate, annidate: il discorso è piano. Ora che ci penso, tutta l’opera di Kafka è così: è che l’opera di Kafka è piena di situazioni kafkiane. Di situazioni paradossali date per assolute e quindi senza via d’uscita. Meglio ancora: qualcosa di perturbante perché gioca, ad esempio, tra estraneo e familiare nello stesso tempo, lasciando irrisolta l’ambiguità, spesso con un senso di angoscia.
Io, nella lettura di Kafka mi lascio andare, in qualche modo accetto l’angoscia e, nel farlo, essa non agisce in profondità, anzi, direi efficacemente, che profondità e superficie sono attributi spesso infondati. Essa stessa, l’angoscia, facendo parte, in Kafka, dell’ordine delle cose, non ti aggredisce, ma si spalma lentamente lungo l’asse del tempo. Siccome io nella lettura di Kafka mi lascio andare, cerco soltanto tra le righe le tracce di un’angoscia a venire, di un disagio ineluttabile. Non mi faccio prendere, cerco; ma non stando all’erta, ma, appunto, lasciandomi andare, quasi cullare dall’avvento della lettura. Comunque penso egualmente. A volte c’è una lettura che si dipana da sé sola, un leggere meccanico, facendo nello stesso tempo qualcosa d’altro. Si potrebbe dire senza attenzione, ma non è questo, è soltanto il fluire della lettura per lasciarsi prendere da essa, dai suoi effetti, angoscia kafkiana compresa. Una volta preso dall’angoscia, nel momento che l’angoscia si manifesta e che la riconosco, nell’atto di riconoscerla, l’atto stesso è piacevole e snatura l’effetto dell’angoscia, lasciando però che l’angoscia sia egualmente insediata nella propria essenza. Il piacere è qui l’aspettativa premiata.
La partenza del racconto: “La preoccupazione del padre di famiglia” ci sbatte immediatamente di fronte all’Odradek. All’inizio è soltanto una parola con la quale è possibile fare riferimento all’etimologia, alla sua origine, alla lingua di appartenenza; all’inizio è solo una parola con la quale possiamo soltanto fare cose che competono le parole. All’inizio il senso della parola, non è la cosa più importante a meno che, le indagini possibili sulle parole, possano in qualche modo portarci al loro senso. Odradek è una parola sconosciuta e se cerco di ricostruirne l’identità, forse scoprirò anche il senso. Poi la logica si rovescia: c’è una cosa, (ci sarebbe una cosa) «un essere che si chiama Odradek», allora è il senso che essendoci, giustifica la parola, il nome. Il referente giustifica il significante, giustifica l’essere del significante, il suo esserci dà essenza alla parola. L’attenzione è ora spostata sul referente, su cosa è un Odradek (momentaneamente essendo perlomeno un essere, quindi maschile, l’apostrofo su un Odradek non sarebbe giustificato, in quanto essere e non in quanto genere). Kafka, allora, ce lo descrive. Attraverso la descrizione che è per parti, il tuo pensiero è costretto ad una decodifica che è una costruzione, la costruzione di una figura che assembla le parti che volta volta ti vengono messe a disposizione. La figura”prende corpo” già con le prime due parti, alla quale poi le successive possono essere aggiunte, oppure esse possono scompigliare la figura, per farne emergere un’altra. La figura fa prima riferimento a qualcosa di già conosciuto, ma lascia aperta la porta a qualcosa di completamento nuovo che così essendo sarà dai contorni più o meno sfumati a seconda della capacità descrittiva dello scrivente, o del patrimonio di figure elementari che lo scrivente ed il lettore hanno in comune.
La mia prima ricostruzione, un adattamento dei termini del racconto ad una mia esperienza, alla memoria, mi ha, appunto, fatto venire in mente un gioco, anzi un giocattolo. Che forse Kafka aveva fatto un gioco simile, si era anche lui costruito un giocattolo elementare come il mio ed ad esso quasi certamente pensava quando scrisse la storia di Odradek. Questo è probabile perché i giochi della mia infanzia somigliavano ai giochi dei ragazzi boemi; anche a Praga si faceva, per esempio un gioco eguale a quello che io facevo da ragazzo con gli amici. Soltanto che noi dicevamo: "vuoi vedere il papa?" Ed in Boemia dicevano: "vuoi vedere Praga d'oro?" Ed il gioco era così caratteristico che Hrabal ci ha intitolato un racconto che poi è anche il titolo della raccolta di racconti con cui è stato pubblicato.Un giocattolo di quelli che si costruivano da soli ed era fatto all’incirca così: occorreva un rocchetto di filo per cucire, allora erano di legno, oggi di plastica, ma possono quest’ultimi funzionare lo stesso. Poi un cartoncino con il quale ritagliare due cerchi del diametro leggermente più grande del diametro esterno del rocchetto. Ad uno di questi tondi di cartone facciamo delle incisioni per ottenere qualcosa che è al limite tra una stella a molte punte ed un ingranaggio. A questo punto prendiamo un elastico poco più lungo della lunghezza del rocchetto. Lo infiliamo nel rocchetto da parte a parte. Al centro dei due tondi di cartone facciamo dei piccoli fori che permettano di farci passare l’elastico. Appoggiamo uno dei due tondi sul lato del rocchetto, facendo passare l’elastico nel foro appena fatto. Con l’aiuto di un pezzo di stuzzicadenti e un pezzo di nastro adesivo fermiamo il capo dell’elastico al tondo. Ripetiamo l’operazione con il cartoncino a stella, ma con l’accortezza di lasciare libero lo stuzzicadenti, questa volta poi, lasciato intero e leggermente disassato, per permettere ad uno dei suoi lati di sporgere per quasi un centimetro dal diametro della stella. Girando lo stuzzicadenti intero si carica l’elastico che una volta lasciato libero si dipanerà velocemente trascinando in rotazione l’intero rocchetto. Questo era un motore di base che poteva essere utilizzato per muovere varie cose, ad esempio il modellino di un automobile, anch’esso di cartone. Penso che Kafka abbia pensato a qualcosa di simile quando ha scritto il racconto. Kafka dice che forse in origine la cosa poteva avere avuto una forma razionale, mentre l’aspetto attuale la fa sembrare come un cosa rotta. E questa è spesso una caratteristica degli oggetti che è possibile convertire in giocattoli. La cosa può avere avuto un’origine, forse un senso, se non un valore d’uso, ma adesso tutto questo si è perso. La funzione originaria non obbliga più ad un uso univoco, lascia una libertà di interpretazione dei possibili usi, ci permette un uso fuori dalla funzione, ci permette un uso ludico, ci permette di giocare. Comunque la cosa è una cosa che si può muovere, che è animata. Avendo ancora su di sé dei pezzi di spago a ricordarne forse l’uso originario o a camuffarsi ora, da animaletto mobile e sfuggente; il suo aspetto e la sua animosità, la sua “vivacità”, appunto, lo fanno percepire come vivente. Come incontro possibile, come interlocutore, come inciampo. Quando mi sono accinto a costruire un Odradek (a giocare a Odradek?) ho anche cercato nel racconto di Kafka degli elementi, come delle istruzioni, per arrivare a compimento. Il marchingegno della mia infanzia che ho appena descritto era un mezzo base, puro strumento di movimentazione o animazione di cose, modulo motore da abbinare a qualcosa d’altro o da agghindare e truccare “in forma di” (un manico di scopa pronto all’uso). L’Odradek che vedo adesso sul mio tavolino ha l’apparenza di un rocchetto che rotolando tra le piume di un disordine probabile sulla toilette di una signora, ne rechi ancora alcune intrappolate nei suoi ingranaggi. Perché proprio con alcune piume di uccello di quelle che si usano per decorare i cappelli, ho deciso di terminare il suo abbigliamento. Mi ricordavo che Kafka parlava di fili di più colori che ancora attaccati al rocchetto lo possono mostrare in un aspetto mimetico evocativo di qualche animalità. Certo che un Odradek nudo non sarebbe altro che un rocchetto, un rocchetto che si muove da solo, un dispositivo, anche se mobile, una cosa mancante di personalità:
«[…] Persona, in ogni caso, definiva originariamente la maschera che ricopriva il volto «personale» dell’attore e serviva a indicare agli spettatori quale fosse il suo ruolo nel dramma. Nella maschera, imposta dal dramma, c’era però una vasta apertura, più o meno all’altezza della bocca, attraverso cui la voce dell’attore poteva passare e risuonare, nella sua nuda individualità. Ed è proprio da questo “risuonare attraverso” che deriva il termine persona: il verbo per-sonare, “risuonare attraverso”, è quello dal quale deriva infatti il sostantivo persona, “maschera”.»[2]
Odradek nudo non riesce ad impersonare nessun personaggio, occorre di una maschera per potere apparire, per poter mettersi in gioco. Non che Odradek, con un semplice trucco, diventi una persona, ma, con la giusta maschera, potrà apparire, potrà tramite “un fare finta di” essere un giocattolo con il quale il gioco potrà avere inizio.In un passo della terza conferenza sull’Essenza del linguaggio, Heidegger scrive: «I mortali sono coloro, che possono fare esperienza della morte come morte. L’animale non lo può. Ma l’animale non può nemmeno parlare: La relazione essenziale tra morte e linguaggio appare come in un lampo, ma è ancora impensata.» Odradek è certamente animato, addirittura vivace, non per questo mortale. Odradek lo incontri, ci inciampi spesso. Provi anche ad interloquirci, sembra che rida, con una risata, con quella risata senza polmoni che “suona press'a poco come un fruscio di foglie cadute”. Animato ma non mortale, senza soffio vitale, senza polmoni, animato ma muto di parole e non mortale tanto da lasciarci l’angoscia o il “quasi dolore” che poi ci sopravviva, a Kafka ed a noi. Certo, qui, Odradek ha un’esistenza ed uno statuto alquanto indefiniti, ha una sua presenza tra le mura domestiche, anch’essa episodica, te lo trovi tra i piedi quando meno te l’aspetti, anche se non è proprio un familiare, né un domestico, né un animale domesticato: ha (ancora?) un che di selvatico, come se la sua provenienza non fosse del tutto casalinga, ma, comunque, di una qualcosa giunta in casa da tempi immemorabili, ma che in casa non ha mai trovato una sua precisa collocazione. Certo senza una collocazione, una funzione, un ruolo sociale. Non rappresenta nessuna figura sociale. Se poi proprio un ruolo glielo vuoi dare, «sarà libero non solo di cambiare il suo ruolo e la sua maschera nella grande commedia de mondo, ma sarà libero anche di avanzare sulle tavole del palcoscenico della sua nuda “ecceità”, identificabile spero, ma non definibile, e comunque non sedotto dalla grande tentazione del riconoscimento che, comunque vadano le cose, può solo farlo riconoscere in questa o quest’altra veste, può solo farlo riconoscere per quello che esso, essenzialmente, non è.»[3] Odradek è come un rifugiato, un non avente diritto che abita comunque sotto lo stesso tetto del padre di famiglia. Il capo di famiglia si confessa perturbato dalla presenza (esistenza) di Odradek. Lo spaesamento, il Das Unheimliche freudiano, che nascerebbe da una riemersione del desiderio infantile di riscontrare la vita anche in oggetti apparentemente inanimati. «Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare.» Un riconoscimento misconoscimento, un dubbio. Odradek c’è? Odradek è?. Il termine tedesco unheimlich dal punto di vista semantico è il contrario di heimlich (da heim, casa) che significa tranquillo, confortevole, fidato, intimo, appartenente alla casa. Un-heimlich significa quindi inconsueto, estraneo, non familiare. Solitamente suscita terrore e spavento ciò che non è familiare o conosciuto però non tutto ciò che è insolito o nuovo provoca spavento e terrore e men che meno perturbamento. Secondo Freud per risultare propriamente perturbante l'oggetto deve dunque avere qualche altra caratteristica e dev'essere una caratteristica poco frequente perché la maggior parte delle cose spaventose o terrifiche non sono anche perturbanti. Freud rileva che un significato traslato di heimlich presente nel dizionario della lingua tedesca di Daniel Sanders è anche "tenuto in casa, nascosto", significati non esattamente antitetici rispetto a confortevole e familiare ma appartenenti a due ambiti sicuramente in contrasto tra di loro. Heimlich presenta dunque una curiosa ambivalenza di significato il secondo dei quali, quello meno usato (cioè misterioso, nascosto) quasi coincide col suo contrario unheimlich. Un-heimlich perturbante significherebbe anche non celato, venuto alla luce, affiorato. Il perturbamento nasce quando in un oggetto o in una situazione si uniscono caratteristiche di estraneità e familiarità in una sorta di "dualismo affettivo". Sempre secondo Freud il perturbante può essere provocato dall’osservazione di movimenti e processi automatici, ripetitivi, meccanici prodotti al di fuori un'attività mentale ordinaria. Ecco che il nostro Odradek ha tutte le carte in regola per provocare il dovuto spaesamento a tutti i padri di famiglia. Uno spaesamento che è allora una preoccupazione, perché c’è dunque al fondo una preoccupazione, quella del capo di famiglia, dei capofamiglia tutti. Una preoccupazione non di gente speciale, di individui esposti alle preoccupazioni, semmai a persone che hanno una responsabilità ed una preoccupazione dunque protettiva, ma è una preoccupazione che possono avere tutti, come a dire che è di tutti, una preoccupazione che è la manifestazione di un problema: c’è un problema dunque, ed il problema, oltre a quello dell’essenza di Odradek, è quello tutto, dell’essenza dei giocattoli. E per sinonimia o adiacenza, quello dei feticci, dei fantasmi, dei simulacri, delle metafore e delle metonimie. La vita dei giocattoli, o meglio la loro longevità, è in funzione del tempo che il fanciullo concede loro come «periodo di esercizio» prima di volerne «vedere l’anima»[4]. «È una prima tendenza metafisica.»[5]
«Il fanciullo gira, rigira il suo giocattolo, lo raschia, lo sbatte contro le pareti, lo getta a terra. Di tanto in tanto gli fa ricominciare i suoi movimenti meccanici, talvolta in senso inverso. La vita meravigliosa si arresta. Il fanciullo, come il popolo che assedia le Tuileries, compie uno sforzo supremo; infine l’apre, è il più forte. Ma dov’è l’anima?»[6]
Il nome di Odradek, la parola, il termine, la scrittura, la possibilità di scrivere: “odradek” potrebbe testimoniare anche quello che Benjamin pensava fosse la tecnica di inversione cui tendono numerose allegorie kafkiane nel loro tentativo di trasformare la vita in scrittura. Allora la scrittura, scrivere odradek è già presupporre un’esistenza, la sua esistenza, addirittura una capacità di sopravviverci. Click qui: i primi passi di Odradek.
[1] Franz Kafka, Tutti i racconti, Mondadori, Milano, 1976, Voll. I, Pag. 237-238.
[2] Hannah Arendt, Prologo, in Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino, 2004 pag. 10-12
[3] Questo è il testo che fa da canovaccio alle considerazioni sulla personalità di Odradek. È il testo che Hannah Arendt pronunciò a Copenaghen il 18 aprile del 1975 in occasione del ritiro di un premio a lei assegnato: «sarò libera non solo di cambiare il mio ruolo e la mia maschera nella grande commedia de mondo, ma sarò libera anche di avanzare sulle tavole del palcoscenico nella mia nuda “ecceità”, identificabile spero, ma non definibile, e comunque non sedotta dalla grande tentazione del riconoscimento che, comunque vadano le cose, può solo farci riconoscere in questa o quest’altra veste, può solo farci riconoscere per quello che noi, essenzialmente, non siamo.» H. Arendt, Responsabilità…, op. cit. pag. 12
[4] Charles Baudelaire, Morale del giocattolo, Procaccini, Napoli, 1989, pag. 18.
[5] Ibidem.
[6] Ivi, pag. 18-19. Il corsivo è di Baudelaire.